Non si può essere al mondo senza abitare. Si abita non meno di quanto si sia. L’abitare rappresenta una delle relazioni fondamentali che gli uomini intrattengono con il mondo e il mondo con gli uomini. Troppo spesso lo si è dimenticato. È bene allora chiederci: che cosa significa abitare?
Ci dice la grammatica che il latino habitare è
un verbo frequentativo (o intensivo) di habere (avere). Esso significa,
innanzitutto, avere continuamente o ripetutamente. “Abitare” rimanda
quindi all’avere con continuità. L’abitante, allora, “ha” il luogo in
cui abita. Non tanto nel senso che lo possiede o ne ha proprietà, quanto
in quello che ne dispone, lo conosce, ne ha confidenza, ne è pratico.
L’abitante “ha” la casa in cui abita, Il cittadino “ha” la città di cui è
abitante. Ogni abitante del nostro pianeta (e non solo il nomade
assoluto che non abita mai nello stesso luogo) “ha” il mondo.
Ora, ne siamo davvero consapevoli? E soprattutto: ne siamo responsabili? O piuttosto: siamo consapevoli di esserne responsabili? Siamo in grado di avere, di abitare una tale responsabilità? Guardando le nostre città, i nostri villaggi, guardando il nostro mondo, guardando, pur con occhi di comprensione, il nostro pensiero, non si direbbe.
Ora, ne siamo davvero consapevoli? E soprattutto: ne siamo responsabili? O piuttosto: siamo consapevoli di esserne responsabili? Siamo in grado di avere, di abitare una tale responsabilità? Guardando le nostre città, i nostri villaggi, guardando il nostro mondo, guardando, pur con occhi di comprensione, il nostro pensiero, non si direbbe.
Vi è poi un altro significato concreto che
l’abitare possiede. Abitare significa – già Heidegger lo aveva ricordato
– costruire. L’essere al mondo come abitare significa quindi costruire
un mondo. La costruzione di un mondo è sempre, tuttavia, ricostruzione
del mondo già dato. Il mondo già dato che ci circonda e ci attraversa –
preesistente all’abitare – è la natura, l’ambiente naturale. L’abitare
come costruzione può tuttavia facilmente trasformarsi – e si è
senz’altro trasformato – in distruzione del mondo naturale. L’abitare si
colloca sempre in questo equilibrio precario tra
costruzione-ricostruzione-distruzione. Anche qui dovremmo chiederci: ne
siamo consapevoli? Possiamo abitare, costruire, senza distruggere?
Un altro elemento, infine, non possiamo non
rilevare nell’introdurre con qualche nota di pensiero il tema di
quest’edizione di “Spazi del contemporaneo”. Se abitare è costruire,
l’abitare, allora, è sempre qualcosa di artificiale. Per quanto naturali
siano i materiali con cui si costruisce l’abitare, per quanto
l’abitazione sia inevitabilmente inserita nel mondo naturale (e ne
dipenda), essa è sempre un artefatto. E se è un artefatto, ha a che fare
con l’arte. Non vi è mai una pura funzionalità (sia pure quella
semplice ed elementare dell’abitare) che manchi di un elemento estetico.
Non vi è artefatto che non svolga una qualche funzione estetica. Esso
infatti – si tratti di grandi volumi o di dettagli – è oggetto di
visione, appare al nostro sguardo. Siamo allora di fronte ad un altro
equilibrio precario: quello tra funzionalità abitativa (in un senso
ampio) e funzionalità estetica. Nel pensare, progettare, guardare i
nostri conglomerati abitativi non dovremmo mai dimenticarlo. È una delle
domande che non si mancherà di porre in questi giorni di festa del
pensiero: quanto spesso lo dimentichiamo? Come possiamo non
dimenticarlo?
Non possiamo non abitare, si diceva. Ma
possiamo abitare senza sapere ciò che l’abitare comporta. Vogliamo dare
un piccolo contributo, provocando come sempre il pensiero, affinché ciò
non accada.
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